Sopravvivere a noi stessi.
12 giugno 2022
Discorso d’apertura del Festival d’Architettura di Roma – FAR
Siamo di fronte all’urgenza di cambiare obbligatoriamente la nostra mentalità, e non è semplice cambiare quando la nostra educazione di cittadini per troppo tempo è stata portata a pensare in modo egoistico. Il nostro mondo è stato retto da un modo di fare basato fortemente su ambizioni personali, sulla competizione a scapito spesso degli obiettivi comuni. Sulla base di questa concezione miope dell’economia, è stato modificato radicalmente il nostro ambiente, le nostre città. L’edilizia è cresciuta spinta da un’insaziabile sete di profitto fine a se stesso, e, grazie anche ad una fede cieca sui mercati che nella concezione liberista dovevano essere lasciati “liberi di fare”, molte zone delle nostre città oggi sono bombe sociali. Zone nate già per essere riqualificate, senza identità, spesso senza servizi, centralità culturali, quartieri dove i giovani, stante l’assenza di attenzione e cura dello stato e delle amministrazioni pubbliche, intesa come mancanza di possibilità di crescita, si affidano spesso ad altre offerte illegali: alcuni si perdono, altri casualmente ce la fanno e altri se ne vanno.
La città è lo specchio delle capacità di governo; ma oggi la complessità dei problemi, richiede a tutti un cambio di mentalità. La politica e la società civile che la esprime, non possono più permettersi superficialità e contrapposizioni strumentali. L’urgenza di cambiare radicalmente modo di fare, non deve essere uno slogan vuoto e buono solo per aprire o chiudere un festival.
Il cambiamento radicale oggi è l’unico modo di avere una possibilità di preservare il futuro del genere umano su questo pianeta.
La nostra casa sta bruciando. E in fretta! Dobbiamo poter agire insieme per salvarla.
Fondamentale è apprendere dagli errori del passato, fissare gli obiettivi futuri avendo ben presenti le sfide di crescita delle nostre città a cui saremo chiamati a rispondere, e, infine, stabilire gli strumenti più consoni per poter avere un domani. Il domani delle future generazioni.
Non otterremo risultati significativi se continueremo a ragionare come singoli cittadini e come singoli paesi. C’è l’estrema necessità che ogni nostra azione sia indirizzata al progresso comune, al miglioramento della nostra società.
Ci vuole la consapevolezza che le nostre sorti, oggi più che mai, non sono slegate. Le nostre azioni possono essere dannose a chi ci circonda e, soprattutto, alle future generazioni.
Le città devono diventare il luogo in cui riconoscersi, dove ricevere un’educazione al bene comune che è il vero investimento con il più grande rendimento che uno stato e la sua amministrazione pubblica possano fare. Dare possibilità, essere presenti in ogni zona della città, dare un’indicazione precisa su quale sia e quanto sia importante la partecipazione alla vita pubblica del paese, e non per il solo fatto di essere moralmente giusto, ma soprattutto perché dalla massimizzazione della partecipazione, dall’inclusione sociale, dipendono anche la maggiore possibilità di progresso del paese e, alcune volte come abbiamo visto recentemente in occasione della pandemia, questo approccio fa la differenza tra la vita e la morte.
Possiamo decidere di ignorare gli innumerevoli segnali che il nostro habitat naturale ci sta mandando, ormai da troppi anni; ignorare i disastri naturali provocati dai cambiamenti climatici ormai non più eccezionali ma che in costanza di manifestazione, danneggiano già da tempo attività strategiche per la nostra sopravvivenza: l’agricoltura e l’allevamento sono diventate attività di trincea, sotto attacco dei mutamenti climatici.
Oppure possiamo finalmente riconoscere che i nostri destini sono indissolubilmente annodati da una unica sorte comune, che se va male per il mio vicino, prima o poi andrà male anche per me.
Ma da dove iniziare? Come innescare il cambiamento se
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se c’è n’è uno è quello che già è qui; l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più (ed è quello che è accaduto sul nostro pianeta!). Il secondo è rischioso ed esige attenzione (cura) e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, inferno non è, e farlo durare e dargli spazio.” (da “Le Città Invisibili” di Italo Calvino – Citta di Saura”)
Gli architetti non si abituano all’inferno, al contrario. Decidono di rischiare curandosi della sorte comune. Come da sempre fanno operando attraverso un proprio codice deontologico e un codice di condotta morale che ci spinge a porre in essere ciò che la nostra carta costituzionale chiede a tutti indistintamente: ad enti pubblici e cittadini viene richiesto di essere operatori di progresso.
Christian Rocchi